Qualche giorno addietro mi sono imbattuto in un articolo di Bloomberg [1] che spiega “Come hanno fatto a sopravvivere gli orologi meccanici dopo l’avvento di quelli al quarzo”.
Il pezzo, decisamente una long reading, in effetti è molto specifico e ripercorre correttamente e con dovizia di particolari l’evoluzione dell’orologio meccanico dalla metà degli anni ’70 al terzo millennio. Un’evoluzione che è valsa la sopravvivenza stessa, nel confronto con gli orologi “elettronici”. Orologi al quarzo, ma soprattutto orologi digitali, LED ed LCD, che, come recita la riformulazione del titolo ad opera di Bloomberg, hanno quasi portato alla completa sparizione di quelli meccanici: “Mechanical Watches Almost Disappeared Forever. Here’s How They Didn’t”.
Nell’articolo si possono apprezzare due grafici (in quantità ed in controvalore) che illustrano quale sia stato nell’ultimo trentennio 1987-2017 il fortissimo sviluppo degli orologi meccanici esportati dalla Svizzera. Come unità si tratta di più che una quadruplicazione, un incremento medio annuo di +5% ed un traguardo di 15,2 miliardi ChF nel 2017 – cui si sommano i consumi interni ed il mercato del secondo polso.
Possiamo concludere che l’orologio analogico non solo non è scomparso a favore del digitale, ma negli ultimi anni ha prosperato. Ma la mia riflessione è che la battaglia non è stata vinta imponendosi solo sugli orologi elettronici, ma anche sugli smartwatch. Anche sugli smartphone e sui tablet. Anche sulla smartTV. E sui PC. Persino sul forno a microonde. Un lungo elenco di dispositivi che ci circonda costantemente, e altrettanto costantemente ci ricorda l’ora esatta. Mentre lo smartphone è ad esempio riuscito ad avere la meglio, industrialmente, sulle macchine fotografiche consumer, appropriandosi ed incorporando una funzione caratteristica di quel dispositivo (scattare le foto), paradossalmente non è riuscito a scalzare gli orologi sul terreno di una funzione nettamente più banale (segnare l’ora).
Mi pare che, al di là di tendenze congiunturali, l’editoria soffra di pressioni competitive simili a quelle esercitate sull’industria degli orologi meccanici. Da un lato le versioni digitali: replica, eBook et cetera, paragonabili agli orologi al quarzo ed LCD. Dall’altro mezzi alternativi, spesso gratuiti, che rispondono a medesimi fabbisogni di intrattenimento, informazione e formazione: siti di news, aggregatori, feed e social, paragonabili all’orologio incorporato negli smartphone e negli altri mille dispositivi che ci attorniano.
Sotto questo aspetto quali parallelismi si possono immaginare tra orologio meccanico e prodotto editoriale cartaceo? Proviamo ad individuarne alcuni.
Qualità Il primo moto da parte degli orologiai è stato quello di impegnarsi al massimo per affermare il primato tecnico. Nel mondo editoriale questo iato si può tradurre in una pluralità di aspetti. Certamente qualità del contenuto, standard elevati nella scrittura (grandi firme, ottime penne, contributors autorevoli e, nel caso di prodotti specializzati, tecnici ed esperti del settore), chiara strategia editoriale ed un attento e raffinato piano editoriale. Esclusività del contenuto, fact checking e verifica delle fonti ed attendibilità. Cura grafica, una parte iconografica importante con foto d’autore, infografiche, tabelle, omogeneità di immagine e, perché no?, anche attenzione all’aspetto più squisitamente materiale del prodotto: grammatura e tipologia delle carte, lavorazione di copertina, processi di stampa particolari, legatura e confezione non dozzinali. E ancora ritmo, inteso come tempestività di pubblicazione dei contenuti e giustezza della frequenza d’uscita rispetto alla tipologia di contenuto stesso, al pubblico di riferimento ed in relazione alla ritmica degli altri media facenti parti dello stesso ecosistema informativo. Ma che servisse una flight-to-quality era facile da intuire… Tuttavia per sostenere una qualità sufficientemente alta per differenziarsi in modo riconoscibile ed incontrastato dalle alternative è necessario affrontare maggiori costi, e non un loro taglio aprioristico. Ne ho scritto anche qui. In un trend di volumi di vendita fortemente contraentisi, e comunque impostando una strategia di scrematura, sarà da valutare se prezzi più alti potranno sostenere i costi più elevati, comportati dall’innalzamento degli standard.
Status symbol In verità l’articolo di Thompson identifica storicamente quale prima inversione di tendenza, più che l’investimento tecnico volto alla superiorità qualitativa, la connotazione nostalgica ed iconica dell’orologio meccanico in quanto oggetto vintage. Se può esistere un fenomeno collezionistico più marcato solo per una parte dei prodotti editoriali (nella libraria, nelle dispense e raccolte, nei fumetti o nella manualistica) chiaramente la rivitalizzazione della periodica (o figurarsi dei quotidiani) per tramite dell’effetto vintage pare arduo. Però se sottraiamo al vintage la connotazione economica di conservazione del valore (o di investimento) resta comunque quella di icona, di rappresentazione. Gli oggetti di questo tipo hanno una funzione simbolica su diversi livelli: l’infimo è censorio (“ce l’ho perché posso permettermelo economicamente”), l’intermedio è esibizionistico (“ce l’ho perché averlo dimostra chi sono”) e il più elevato è culturale ed edonistico (“ce l’ho perché so comprenderlo ed apprezzarlo”). Quest’ultimo è probabilmente quello più mutuabile nell’universo editoriale e si innesta nel solco dello snobismo culturale. Il giornale può svolgere anche questo ruolo, di identificatore sociale. Per fare esempi di stampa estera dà un segnale ben diverso aver in casa copie di “The New Yorker”, “Financial Times” o “Octane” rispetto ad avere “The Sun”, “New York Post” o “TopGear”. Il fatto che poi si tratti di copie cartacee conferisce un’allure per se, non tanto diversamente dal disco in vinile nell’epoca della musica liquida. La partita può essere poi giocata sul perno del puro snobismo, oppure incernierata più solidamente sulla qualità. Di fatti il “cosa si legge” permette al lettore di qualificarsi socialmente come connoisseur – sia nel senso che sa scegliere il prodotto più appropriato ed alto di fascia, sia più propriamente perché comunque forma una cultura apprendendo da una fonte certificata e qualificata. Torna insomma il focus sulla qualità – e sulla sostenibilità di un prezzo di scrematura.
Estetica Qualche orologio digitale sa essere bello, ma raggiungere la squisitezza, l’eccellenza ed il senso di bellezza, cura e complicazione di un orologio meccanico è cosa ben diversa. Per non parlare poi dell’effetto generale dell’orologio “come gioiello” (banalmente più tipico nell’uomo che nella donna, poiché quest’ultima ha più facilmente accesso all’indossare gioielli veri e propri). Portare al polso uno degli oggetti citati nell’articolo di Thompson (un Blancpain a répétition minutés o un Omega Co-Axial o un Rolex Daytona o un Lange&Söhne Tourbillon) è comunque accompagnarsi ad un’opera d’arte, qualcosa che, anche qualora solo parzialmente figlia di processi industrializzati, sa di artigiano, di saper fare, di sapienza, di tradizione – di bello, insomma. Se forse questo effetto può rinvenirsi magari nelle opere storiche, papiri, incunàboli, codici miniati, di cataloghi d’arte di altissima caratura, davvero difficilmente può essere riprodotto con simile forza in un prodotto editoriale ordinario. Ciò non toglie che esso debba essere bello e gratificante. Più difficile per quotidiani e settimanali generalisti, meno per mensili e stampa specializzata, certo, ma la tensione dev’essere quella di creare ad ogni uscita un numero unico, un feticcio, un oggetto bello che possa essere di culto per il lettore.
In un altro recente articolo che ho letto, a proposito del crescente predominio negli Stati Uniti del commercio elettronico a dispetto dei department stores, ci si poneva correttamente l’interrogativo su quali aspetti i negozianti brick&mortar debbano valorizzare e sviluppare per portare valori che siano da una parte riconosciuti ed apprezzati dalla clientela, e dall’altra distinguibili ed intrinsecamente inimitabili dall’eCommerce. Non tanto diversamente la battaglia della macchina fotografica consumer contro lo smartphone è persa in partenza se basata sul costo (nello smartphone è già compresa…), sulla portabilità (idem: rinunciando alla macchina e usando quella dello smartphone porti un oggetto in meno), sulla qualità sufficiente degli scatti, sulla semplicità ed immediatezza di condivisione delle immagini, sul geotagging implicito e così via. Per l’orologio meccanico invece la partita è stata giocata diversamente, facendo leva su variabili difficilmente replicabili da un orologio digitale o da quello del frigorifero di casa o sul cellulare: un retroterra di contenuti tecnici di qualità, iconicità e fascino, e senso del bello e dell’esclusivo. Ma nella realtà dei fatti poi nemmeno troppo esclusivo, visto che che alla fine l’esportazione Svizzera l’anno scorso ha superato i 7,2 milioni orologi meccanici.
Amo pensare che nell’editoria non ci troviamo davanti ad un cambio radicale del paradigma di prodotto (da carrozza trainata da cavalli ad automobile con motore termico), quanto più ad una crisi di identità per cambio di supporto (da cartaceo a digitale) ma molto, molto di più per concorrenza di surrogati. Sui quali si può impostare un esercizio di segmentazione ben più efficace che nel caso di un prodotto perfettamente fungibile ed al contempo disruptive.
La strada che vedo per una lunga vita dei periodici cartacei è quella di diventare il più possibile dei Patek Philippe Calibre 89, in un mondo di orologi digitali di plastica.
[1] Si può trovare a questo link. In realtà è un rilancio di un articolo a firma Joe Thompson pubblicato da Hodinkee.